Io sono Legenda


New York, 2012. Un virus ha ucciso tutti gli uomini e li ha trasformati in vampiri. La città è deserta, e l'unico sopravvissuto è il Dottor Robert Neville (Will Smith), scopritore di un possibile siero che potrebbe salvare l'umanità. Neville si muove alla luce del giorno con il suo cane lupo seguendo la quotidianità, in attesa della notte, in cui i vampiri escono dalla penombra, attaccando tutto ciò che incontrano.Will Smith sa il fatto suo. È nato come rapper, è diventato una star della televisione, e da tempo ha affrontato il cinema. Sempre da protagonista. Dopo il film diretto da Muccino dove recitava con suo figlio, adesso si confronta con se stesso e con una metropoli spettrale che mette in evidenza ogni suo movimento. Forse non sarà candidato all'Oscar, ma la sua interpretazione è degna di nota. Passando al film, il "one man show" di Smith è supportato da una scenografia incredibilmente convincente, e da una regia di mestiere. Non è facile costruire un film su un solo attore (se si escludono il cane, i vampiri, qualche flashback e due superstiti), e il day by day del protagonista è scandito con lentezza, quasi a voler fare respirare allo spettatore il senso di solitudine. A dispetto della necessità di includere la componente horror (le scene d'azione sono presenti per coinvolgere il target giovane), a parte la mezz'ora finale, Io sono leggenda, si concentra sul singolo, sull'uomo che poteva cambiare il mondo, su chi ha la consapevolezza che è molto semplice distruggere ciò che si ha per le mani tutti i giorni. L'11 Settembre è lì, è l'origine delle cose, e Richard Matheson che nel 1954 scrisse il romanzo omonimo, non avrebbe potuto immaginarselo così reale. Ma alla fine, la convinzione ultima, è che solo l'umanità può decidere le sorti del mondo.

The Haloowen Beginning


Madre spogliarellista e padre alcolizzato Mike Myers, dodicenne, massacra la famiglia la notte di Halloween, finisce in manicomio, dopo diciassette anni scappa e si fionda alla ricerca della sorellina minore, per proteggerla, forse, uccidendo famiglie e giovani studentesse. Prequel e remake dell'omonimo di John Carpenter (1979), l'Halloween di Rob Zombie apporta quella messa in scena grezza e sporca che ricordiamo nei suoi precedenti, e piuttosto riusciti, La casa dei mille corpi e La casa del diavolo. Se l'originale del '79, elegante nella sua essenzialità, glissava rapidamente sull'origine dell'orrore, lasciando in scena un incubo fine a se stesso, Zombie rivela le cause, eccede in spiegazioni sociologiche francamente inutili, e disegna un contesto proprio dove Carpenter l'aveva volutamente adombrato. Eppure il tutto, posto all'inizio del film come lunga introduzione, riesce a rendere la routine horrorifica del gioco al massacro stranamente significativa e tragica. Come a descrivere la lenta discesa nell'odio di un bambino psicotico, al cui punto di vista lo spettatore è costretto ad aderire. Zombie riesce, attraverso la narrazione, a rendere l'effetto delle famose soggettive dell'assassino nell'originale di Carpenter, provocando lo spettacolo del massacro e il senso di colpa di chi guarda, ancor più della paura. Quella narrata in Halloween è una provincia americana volgare e meschina, dove ogni valore familiare o istituzionale si è sgretolato. Ossessionato da volti di personaggi abietti o che raccontano un passato sgradevole, il regista-musicista riesce per una volta a rendere espressive persino le teenager massacrate nella seconda metà del film. Ben azzeccati, inoltre, Daeg Faerch, nei panni del giovane Myers e Malcolm Mc Dowell, nel ruolo dello psichiatra. Pur privo dell'eleganza dell'originale, Halloween è dunque teso e drammatico, disturba più che spaventare. Certo, non lascia nulla di veramente notevole e si prende un po' troppo sul serio. Ma per un horror che segue almeno altri otto episodi della serie, arrivare a dire qualcosa di nuovo non è poco.

Gomorra


Totò ha tredici anni, aiuta la madre a portare la spesa a domicilio nelle case del vicinato e sogna di affiancare i grandi, quelli che girano in macchina invece che in motorino, che indossano i giubbotti antiproiettile, che contano i soldi e i loro morti. Ma diventare grandi, a Scampia, significa farli i morti, scambiare l'adolescenza con una pistola. O magari, come accade a Marco e Ciro, trovare un arsenale, sparare cannonate che ti fanno sentire invincibile. Puoi mettere paura, ma c’è sempre chi ne ha meno di te. Impossibile fuggire, si sta da una parte o dall'altra, e può accadere che la guerra immischi anche Don Ciro (Imparato), una vita da tranquillo porta-soldi, perché gli ordini sono mutati, il clan s'è spezzato in due. Si può cambiare mestiere, passare come fa Pasquale dalla confezione di abiti d'alta moda in una fabbrica in nero a guidare i camion della camorra in giro per l'Italia, ma non si può uscire dal Sistema che tutto sa e tutto controlla. Quando Roberto si lamenta di un posto redditizio e sicuro nel campo dello smaltimento dei rifiuti tossici, Franco (Servillo), il suo datore di lavoro, lo ammonisce: non creda di essere migliore degli altri. Funziona così, non c’è niente da fare. Matteo Garrone porta sullo schermo Gomorra, libro-scandalo di Roberto Saviano che in Italia ha venduto oltre un milione di copie, aprendo il sipario sulla luce artificiale e ustionante di una lampada per camorristi vanitosi ed esaltati. Il sole non illumina più le province di Napoli e Caserta, impossibile rischiarare questa terra buia e straniera al punto che gli italiani hanno bisogno dei sottotitoli per decifrarla. Siamo in un altro paese: all'inferno. Che non si trova nel centro della terra, ma solo pochi metri giù dalla statale o sotto la coltivazione delle pesche che mangiamo tutti, nutrite di scorie letali, trasformate in bombe che seminano tumori con la compiacenza dei rispettabili industriali del nord. Nessun barlume di bellezza dentro questo buio fitto sotto il sole; forse la bellezza è nata qui, per caso o per errore, ma è volata lontano, addosso a Scarlett Johansson, col risultato che chi l'ha partorita è rimasto ancora più solo ed impotente. Il film di Garrone è crudo e angosciante, ripreso dal vero, musicato dal suono delle grida e degli spari di Scampia. Una volta si diceva "giusto", quando dire "bello" non aveva senso. Giustissimo, dunque. Del libro, il film sceglie alcuni fili, li intreccia, s'impone come uno sciroppo avvelenato, senza la possibilità di voltar pagina o sospendere la lettura. Del libro, soprattutto, sposa il punto di vista, da dentro, e tuttavia inevitabilmente fuori, in salvo. "Ma - scrive Saviano - osservare il buco, tenerlo davanti insomma, dà una sensazione strana. Una pesantezza ansiosa. Come avere la verità sullo stomaco". Gomorra, sullo stomaco, pesa come un macigno. Solo una ruspa potrebbe sollevarlo, per "sversarlo" altrove e chiudere in circolo vizioso, come il suono del film.

The Number 23


La vita ordinaria di Walter Sparrow, modesto accalappiacani, è scossa da un libro regalatogli per il compleanno dalla moglie. Intitolato "Il numero 23", il romanzo diventa un'ossessione per l'uomo, che trova una serie di connessioni, tutte nel segno del famigerato numero, tra se stesso e il detective Fingerling, protagonista del libro. Le cose si faranno complicate per Walter quando, del tutto persuaso che il racconto parli di lui, comincerà a farsi condizionare dal narrato al punto da mettere in pericolo la propria vita e quella dei propri cari. Numerologia e ossessione, temi di fondo che tendono spesso ad andare a braccetto, contraddistinguono questo torbido thriller-drama che vira in modo fluido quanto inatteso verso decisi territori noir. Lontano quindi dall'epicità claustrofobica de Il Teorema del Delirio, con il quale condivide le dense atmosfere paranoiche, Il Numero 23 ha dalla propria un concept fondamentalmente valido edun cast artistico di buon livello. Jim Carrey non stupisce, dopo la prova maiuscola in Se mi Lasci ti Cancello, nel confermare doti recitative di valore assoluto e lo spessore tecnico del veterano Schumacher è vicino alle proprie vette più alte. Ciò che d'altra parte impedisce al titolo il salto di qualità è uno script che circoscrive lo sviluppo della trama entro i confini di una detective story casalinga, e un'impostazione onirica mal calibrata dagli effetti collaterali inesorabilmente sonnacchiosi.

Hancock


Hancock (Will Smith) è un supereroe… ma un supereroe decisamente insolito. Sarcastico, pieno di conflitti e insicurezze, ad ogni impresa eroica che compie, Hancock associa qualche grave danno a cose o persone. La popolazione di Los Angeles, pur inizialmente contenta di avere un supereroe a disposizione, inizia ad averne abbastanza dei guai combinati da Hancock, che reagisce cercando nella bottiglia la cura alla sua infelicità. La vita di Hancock sembra oramai aver preso una brutta china, fino al giorno in cui il PR Ray Embrey (Jason Bateman) decide di aiutarlo a riabilitare la sua immagine. Le cose si complicano quando Hancock pensa bene di iniziare una relazione segreta con la moglie di Ray, la bellissima Mary (Charlize Theron).

Donnie Darko


Donald Darko detto Donnie è un ragazzo con dei disturbi mentali che lo hanno portato a dar fuoco ad una casa abbandonata, anni fa. Nonostante sia un tipo in gamba, con una famiglia che lo ama e lo appoggia anche nelle scelte più discutibili. Donnie è in cura da una psicanalista che lo aiuta a combattere la sua schizofrenia; a lei confida del suo nuovo amico immaginario, Frank, un coniglio gigante che lo ha salvato da una morte assurda, ma che in cambio gli chiede di fare cose riprovevoli e sempre più pericolose. Ah, tra l'altro Frank gli ha svelato che la fine del mondo arriverà di lì a 24 giorni.Donnie Darko è uno di quei film di culto che lentamente si emancipano dalla nicchia e si fanno conoscere ed amare in tutto il mondo, perdendo in parte il loro alone di leggenda. L'Italia detiene il triste primato di riuscire ad arrivare sempre per ultima a scoprire certi fenomeni, ed è per questo che Battle Royale troverà una distribuzione forse solo tra un secolo o giù di lì, ed è sempre per questo che Donnie Darko arriva in Italia con due anni di ritardo. Due anni che non tolgono al film un'oncia del suo appeal, lasciando inalterato il grande fascino che obiettivamente questa pellicola è in grado di esercitare sul pubblico, soprattutto quello coetaneo del cupo protagonista, poco più che adolescente. Al contrario di molti film che fanno esplicito riferimento al mondo giovanile, Donnie Darko brilla di una luce sinistra e tristemente rara: qui non si parla del primo amore, del primo bacio, dei conflitti con gli adulti, della perdita dell'innocenza, scialbe tematiche che fanno sentire gli adulti (quelli veri) con la coscienza a posto, ma che quasi sempre fanno ridere i ragazzi (sempre quelli veri). Qui si parla di qualcosa di molto più significativo: si parla di morte. In toni tutt'altro che rassicuranti, Richard Kelly si interroga sull'effetto prorompente che la consapevolezza della morte ha su ogni individuo, e di quanto questo condizioni ogni altra sensazione ed azione: amore, paura, disprezzo, ribellione. Di morte è imbevuto l'intero tessuto del film, inevitabilmente sbranato qua e là proprio a causa della friabilità del terreno su cui si avventura. Ma si può ben chiudere un occhio, considerato che di contro il film avvince ed appassiona senza essere né moralista né retorico. E soprattutto considerato che, a pensarci meglio, Donnie Darko è uno dei pochi film di oggi che aiutano i ragazzi a crescere, e non gli adulti a credere che "va tutto bene" (un altro titolo? Mysterious skin – ma anche questo dovremo aspettare parecchio per vederlo...). Un genere dimenticato dall'edonista cinema contemporaneo.

The Mist


Dave Drayton vive con la moglie e il figlioletto Billy in una casa fuori città. Subito dopo una tempesta particolarmente violenta inizia a diffondersi una nebbia che non sembra avere ragioni meteorologiche. Insieme al vicino di casa Brent Norton (col quale non ha buoni rapporti) e a Billy Dave si dirige con il suo fuoristrada verso il supermercato locale. Lungo il percorso incontrano mezzi militari che si dirigono verso la nebbia. Brent fa allora riferimento a un misterioso Progetto. Ben presto tutti gli occupanti del supermercato si troveranno avvolti dalla nebbia all'interno della quale si muovono creature mostruose. L'incubo ha inizio.Stephen King è un autore tanto fortunato sul piano letterario quanto poco accorto nell'assegnare i diritti delle proprie opere per la trasposizione sullo schermo. In buona parte dei casi il suo già cospicuo conto in banca deve essere aumentato ma non è certo aumentata la stima dei frequentatori delle sale. I film 'da King' sono spesso letture superficiali della struttura di base delle sue opere dalle quali sono stati espunti tutti gli approfondimenti psicologici di cui l'autore è abile artefice.Per questo film tratto da un racconto incluso nella raccolta "Scheletri" invece siamo di fronte a una delle (purtroppo) non frequenti eccezioni. Darabont, già esperto 'kinghiano', riesce a offrire un efficace saggio di come si possa trasporre un testo letterario sullo schermo potenziandone la valenza simbolica. Se l'assunto di partenza è già stato sperimentato da Maestri (vedi ad esempio Buñuel con L'angelo sterminatore) e non grazie alla costrizione iniziale di un gruppo di individualità diverse costrette da un evento drammatico a condividere un spazio chiuso, il regista riesce a trarre da questa idea di partenza l'occasione per rileggere le dinamiche interpersonali e, forse, per fare qualcosa di più. Man mano che il film procede e che l'orrore si fa più tangibile ciò che colpisce nel profondo lo spettatore non sono tanto i mostri assetati di sangue a cui tanto cinema ci ha in qualche modo abituato. Essi sono e restano uno strumento. Ciò che a Darabont interessa è la lettura dell'America di oggi (ma, con qualche variazione non sostanziale, potremmo aggiungere di tutto il mondo occidentale) in cui l'iniziale solidarietà contro la distruzione imminente finisce con il frantumarsi in una miriade di prese di posizione dove l'ego e i condizionamenti sociali di origine prendono il sopravvento. Si può essere razionali non negando l'evidenza nei confronti dell'impensabile ma si può anche invece decidere (proprio in nome di una supposta razionalità) di chiudere gli occhi dinanzi all'evidenza. Si può esasperare un misticismo fideistico che ha tutte le premesse della crudeltà così come consentire a risentimenti a lungo covati di venire in superficie. Tutto questo viene portato sullo schermo avendo sempre presente lo sviluppo dell'azione e costruendo un progress di tensione in cui l'effetto speciale nasce dagli abissi dell'animo umano, dalle sue pulsioni più profonde e anche dalle sue contraddizioni. È grazie a questo progressivo scavo delle singole psicologie che il j'accuse contro esperimenti top secret si affianca senza alcun moralismo alla compassione (nel senso più alto del termine) nei confronti di Dave. Che dovrà affrontare l'orrore più insostenibile. Avvertenza per gli appassionati: fin dalla prima scena Darabont paga il suo debito di riconoscenza a un maestro del genere. Non vi sarà difficile scoprire in quale modo.

Tsunami


Qualcosa di sospetto sta accadendo nel Mare del Nord, vicino alla piattaforma petrolifera Rantum IV, al largo delle coste tedesche. Svenja, una giovane diplomata americana ha il compito di interrogare il responsabile della sicurezza della piattaforma, ma l’uomo viene misteriosamente assassinato. Prima ancora di capire i motivi dell’omicidio, la ragazza si vede costretta a fuggire da un’onda anomala di spaventose proporzioni, presumibilmente causata dalle attività della stazione petrolifera. Ma dietro questo spaventoso evento naturale si cela la mano di un gruppo di individui senza scrupoli che non esiterà a scatenare altre terribili ondate. Il conto alla rovescia è cominciato

Babylon A.D.


In un futuro non troppo lontano, Toorop è un mercenario americano silenzioso ed efficiente, sopravvissuto alle guerre che hanno devastato il mondo all'inizio del ventunesimo secolo. Bandito dal suo paese, stanco, impermeabile alle illusioni e deciso a ritirarsi, viene contattato da un pezzo grosso della mafia russa per una missione di estrema importanza: scortare da Mosca a New York una ragazzina di nome Aurora e consegnarla alla papessa di una nuova e potente religione. Poche spiegazioni, molti misteri, troppi soldi. Ma Toorop accetta. Dalle seicento pagine del thriller futuristico "Babylon Babies" di Maurice Dantec, Mathieu Kassovitz estrae i novanta minuti di Babylon A.D., pellicola a base di ipercinetismo delle immagini e sintesi narrativa degli ultimi punti fermi del genere, dalla pioggia acida di Blade Runner allo spunto che già mosse I Figli degli Uomini di Cuaròn. La compressione, però, è massima e la qualità ne risente.Ottenuto con Gothika e il suo parterre di stelle (e strisce) il permesso di soggiorno presso i grandi studios e il nulla osta per capitanare un film high budget come B.A.D., il regista francese si è parallelamente aggiudicato una discreta dose di diffidenza da parte dello spettatore esigente, che lo ha visto dimenticare in fretta gli esordi promettenti a favore di pellicole di sicuro richiamo ma di esito incerto. Qui Kassovitz conferma l'attitudine spiccata per l'azione e il possesso di un cronometro personalizzato, che non solo rispetta ma crea tempi e scarti esatti. Dice la sua anche in termini di cast: Michelle Yeoh, Charlotte Rampling, Gérard Depardieu e Lambert Wilson sono le salde colonne al centro delle quali può azzardare l'inserimento di Vin Diesel, decisamente più efficace in lingua originale. Attori speciali, effetti speciali, una storia che ruota attorno a un essere speciale, geneticamente modificato per salvare o annientare quel che resta della nostra specie: grandi pretese e non poca confusione, per un'opera che non riscrive la storia e non entra in quella del cinema. Dopo un inizio folgorante, che ci ricorda l'abilità dell'autore nel descrivere con occhio antropologico i mondi ai margini, il film inciampa in ogni trappola della retorica e ben presto vende il cuore per un surplus di stucchi e pittura. Babylon A.D. è il Quinto Elemento di un cineasta che si è avviato sulla terza via inaugurata da Luc Besson, possibile ma più che mai rischiosa. Con una differenza: là Milla Jovovich piangeva sincera sul mondo, qui sgorgano lacrime artificiali.

Next


Tratta dal racconto "The Golden Man", la pellicola segue il percorso unico di Cris Johnson, in arte Frank Cadillac, illusionista di Las Vegas che possiede il dono di vedere fino a due minuti nel proprio futuro. L'innata dote di Cris risulta particolarmente utile nel gioco d'azzardo, ma a seguito proprio di un incidente in un casinò un agente federale particolarmente perspicace intuirà il segreto dell'uomo e comincerà a dargli la caccia per "convincerlo" a utilizzare le proprie capacità straordinarie nella risoluzione di un allarme terroristico nucleare.Dopo Minority Report e Paycheck, Next is what's next: il lavoro di Philip K.Dick continua ad alimentare la fornace del cinema contemporaneo con concept sempre fenomenali. Fondamentalmente film d'azione, Next condivide numerose idee di fondo e situazioni concrete con il predecessore cinematografico Paycheck, anche se in un contesto diverso: la componente fantascientifica viene meno ma la prospettiva scientifica con cui si guarda all'ignoto rimane e, grazie a uno script ben assemblato, il concetto cardine della "visione del futuro" non appare come qualcosa di romanticamente sovrannaturale, quanto come fenomeno cognitivo inesplorato. Nonostante le innumerevoli possibilità digressive, le caratterizzazioni sono efficacemente concise e lo sviluppo della trama è fluido e coerente con l'impostazione orientata all'intrattenimento puro, dove per intrattenimento puro si intende in questa circostanza un prodotto non per forza scevro da spunti riflessivi ma volto principalmente a impegnare la mente quasi esclusivamente durante la visione. Un plauso per un ritrovato Lee Tamahori, che torna sulla retta via dopo due scempi consecutivi, quali 007 - La morte può attendere e XXX – The Next Level, dando vita, grazie anche a un cast di peso, a un titolo fruibile sotto molteplici aspetti.Tirando le somme, Next è un tre stelle che sposa lo stile "usa, getta ma non dimentica" dei tempi andati: ultimamente si vedono pochi film da 90 minuti, e se ne sente la mancanza.

E venne il Giorno


C'è qualcosa nell'aria. Qualcosa di impalpabile e indefinito. Un respiro e si spegne l'istinto di sopravvivenza dell'uomo. In città, sui marciapiedi, nei parchi, sulle strade, la gente si toglie la vita: precipitando da un'impalcatura, sparando un colpo di pistola, pugnalandosi con un fermaglio, lanciandosi sotto un'automobile. Elliot Moore, insegnante di scienze in un liceo di Philadelphia, è deciso ad allontanarsi dalla città per trovare rifugio nella campagna della Pennsylvania insieme a una coppia di amici e alla moglie Alma, una giovane donna in piena crisi esistenziale. Ma nessun luogo appare sicuro e i fuggiaschi restano vulnerabili davanti alla minaccia della natura. Com'è iniziato tutto questo e quando finirà?Come Hitchcock, Mr. Night Shyamalan si nasconde nei suoi film, come nel cinema di Hitchcock un personaggio normale è alle prese con lo straordinario, soltanto che per il regista (indiano)americano, lo straordinario può essere soprannaturale e declinabile: il paranormale per Il sesto senso, il fantastico per Signs, il fumetto per Unbreakable - Il predestinato, il fantasy per Lady in the water. Di volta in volta i suoi protagonisti si sono scoperti morti, invulnerabili, onnipotenti, fuori tempo e affabulatori. Di film in film Shyamalan ha tracciato un sentiero personale e inedito con uno stile preciso e qualche ossessione: quella per l'acqua, gli incidenti stradali e le cantine, quella per la colonna sonora potente (James Newton Howard adoperato come Hitchcock adoperava Bernard Hermann), per la morbosa costruzione della suspence e per l'architettura narrativa, una trappola che scatta alla fine del racconto puntando sulla distrazione dello spettatore. E venne il giorno è tutto questo e molto altro ancora. È un film misterioso e perturbante, saturo di colori freddi, carico di tensione sonora e atmosfere livide. Dentro un clima diffuso di inquietudine, Shyamalan esaspera quella forma di allarme emotivo che si ritrova in ogni sua opera e che anche questa volta prende corpo nei personaggi, immersi in un rammarico che li ha separati da un affetto assoluto e cruciale. Padrone "favoloso" di atmosfere, attori e tecniche di gestione della tensione, Shyamalan pone l'accento su un individuo, il professore malinconico e devoto (alla moglie) di Mark Wahlberg, che compie un percorso di emancipazione dentro un mondo che diventa improvvisamente un'entità estranea e ostile. Contro l'ipotesi comunitaria, che quando è introdotta si distingue per un carattere negativo e privativo (Signs e The village), il regista delle favole oppone un soggetto mosso dall'impulso di fare corpo a sé. Così il protagonista di E venne il giorno si allontana dalle masse, dal gruppo e dalle persone, per costituire con la moglie e la piccola Jess, orfana dei genitori, un'altra embrionale società in cui ritrovare quello che si è perso (un'illuminata età dell'oro dove gli esseri umani e le creature vivevano in pace) e condividere un dono (l'amore). Se Lady in the water è un film metalinguistico, sull'arte di raccontare storie e sul bisogno ancestrale di farlo, E venne il giorno è costruito sul modello tradizionale del racconto fantastico ottocentesco. Lo spettatore è tenuto per buona parte del racconto in uno stato di accorta indefinibilità, tutto quello che di anormale e di incomprensibile si verifica nel mondo degli uomini è l’effetto di un causa sovrannaturale, irrazionale e scientificamente inverificabile. Il "meraviglioso" è dato proprio dallo stato di sospensione che quella indefinibilità genera nella narrazione stessa. E venne il giorno è un film potente che mette a nudo la solitudine e la paura degli uomini, una distesa di esseri inermi e indifesi in cerca di protezione. Forse è questo il senso del cinema di Mr. Night. L'uomo delle favole che ha la notte nel nome.

Funny Games


Una famiglia borghese in automobile. La cavalleria rusticana di Mascagni e Atalanta di Handel nell'autoradio. Il figlio ascolta sorridendo dal sedile posteriore. La casa al lago: con il prato ben curato, la barca a vela e i vicini gentili. Niente di più stabile, tranquillo e banale. Non fosse che Haneke usa la macchina da presa come a volerne (vivi)sezionare la vitalità. Con piani totali, dall'alto a volo d'uccello e dettagli minimali. La musica lirica e John Zorn che irrompe sui titoli di testa. Spinto dal produttore Chris Cohen a portare negli Stati Uniti la sua opera austriaca del 1997, Michael Haneke ricalca ogni piano dell'originale in un'operazione che non può non ricordare, e lo fa volutamente, lo Psycho di Gus Van Sant. Si sa, negli Stati Uniti, senza il remake, i film stranieri hanno scarsa visibilità. Haneke ne approfitta e, nel clonarsi, sfrutta la bravura dei suoi attori, Naomi Watts, Tim Roth, Micheal Pitt e Brady Corbet, per dare maggior valore alla pellicola grazie all'interpretazione.Non è tutto. Sbarcato in America, Funny Games, che già offriva una varietà di possibili letture, si fa ancora più stratificato. Lasciando dunque spazio alle logiche di ri-produzione, identico all'originale eppur diverso, mostra, tra le altre innumerevoli cose, come un film sia un fatto sociale e contestuale. Nel giro produttivo americano, Funny Games sfrutta le logiche di genere per rendere ancora più potente una sadica critica della società dello spettacolo ai danni di uno spettatore inconsciamente e irrimediabilmente colpevole. Sia ben chiaro, la differenza è talmente minima tra l'originale e il remake, da essere portatrice di senso: ma è lo spettatore a costituire lo scarto, a non poter non vedere il film sotto altre prospettive, anche solo per la presenza degli attori protagonisti.Funny Games è un horror, in quanto mette in scena la perversione dello spettacolo dell'orrore. Ma lo fa in maniera estrema, al punto da divenire parodico, beffa grottesca del cinema e delle sue logiche, dello spettatore e delle sue certezze. I ragazzi vestiti di bianco, sadici e col viso pulito da figli di papà, ricordano i drughi di Arancia Meccanica. Le uccisioni e la dilatazione del tempo, sono una messa in questione del nostro modo di osservare oltre che di quello di rappresentare la violenza. Aggressivo, estenuante, critico e parodico contro le stesse critiche che mette in scena, Funny Games nel suo essere remake di se stesso è un'opera contemporanea che acquista valore e senso nella ripetizione.

Jumper


David scopre a 17 anni di avere il dono del teletrasporto. Può materializzarsi in qualsiasi parte del mondo guardando una semplice immagine. Ma non è il solo, i Jumpers esistono da secoli e vivono una lotta costante contro i Paladini, una setta che vuole sterminarli. Come in Star Wars III, Christensen interpreta un uomo che sceglie l’uso amorale delle sue doti. David è un antieroe che sfrutta il misterioso potere per rubare nelle banche e viaggiare. Tratto da un romanzo di Steven Gould, inedito in Italia, Jumper mette in scena una trama superficiale per mostrare salti spaziali verso una serie di location da cartolina. Si balza dalla Sfinge, al Big Bang, a Tokyo, in maniera nervosa e piuttosto confusa. E di queste location la pellicola non mostra più di quanto si veda in una bella foto turistica, dando l’impressione di sfondi vacui e inutili alla narrazione. Dedicata a Roma, e, per non rischiare di uscire dalla banalità, al Colosseo, una lunga sequenza del film, l’unica posata e seguibile peraltro, dove David si lascia arrestare dai poliziotti italiani, restando ore in attesa di un magistrato. Al di là dell’idea di partenza, e della difficoltà a lasciarsi coinvolgere con un antieroe volutamente antipatico, Jumper mostra il carattere molto attuale della frenesia visiva a discapito del contenuto. Alla costruzione dei personaggi e delle situazioni, si preferisce spesso l’accumulo spropositato di luoghi spettacolari, ostentati in oggettive irreali con l’aiuto della computer graphic. Doug Liman, regista di The Bourne Identity e Mr. & Mrs Smith, non approfondisce, come ci si attenderebbe, il rapporto degli attori nello spazio. Impaziente e incapace di valorizzare i luoghi, introduce i viaggi da visioni aeree roteanti e pompose, certamente belle sul grande schermo ma incapaci di fissarsi nella memoria per la loro vacuità narrativa. Al caos visivo si aggiunge il pasticciato plot, che pur essendo privo di sorprese, è raccontato con buchi e sequenze apparentemente insensate. Una nota positiva va alla striminzita durata, che evita l’inutile polpettone ma accentua la sensazione di aver visto il trailer di Jumper 2.

Wanted Scegli il tuo Destino


Prima di diventare il gioiello della Confraternita, un gruppo armato di giustizieri agli ordini del Fato, Weasley Gibson era un impiegato anonimo e ipocondriaco, vessato da una dirigente "abbondantemente" insopportabile e tradito dal migliore amico con la fidanzata petulante. Abbordato alla cassa di un drugstore da una donna killer tutta tatuaggi e pistole, Wes scopre che i suoi attacchi di panico nascondono poteri ultrasensoriali e capacità fisiche sbalorditive. Allenato dalla Confraternita a pugni in faccia e fendenti affilati, viene iniziato all'arte della vendetta "giusta": uccidere i "cattivi", nominati da un arcano telaio. La sua missione sarà quella di eliminare il superkiller che ha ucciso il padre mai conosciuto. Ma l'antica organizzazione di superassassini, che da secoli protegge l'umanità, annientando il Male e facendo il Bene, nasconde un segreto. Spetterà a Wes svelarlo, imparando a controllare il proprio destino.Nel Wanted di Timur Bekmambetov, un telaio misterioso sostituisce le capacità divinatorie dei precog di Spielberg, capaci di pre-vedere un omicidio, producendo il nome della vittima e del suo assassino (Minority Report. Se i precog non hanno relazioni con il mondo, eccezione fatta per le allucinazioni che la loro mente proietta all'esterno, i giustizieri in action, nati dalla penna di Mark Millar e dai disegni di Jeffrey G. Jones, sono "eroi" conservatori che sorvegliano e puniscono con la morte i nominati dalle trame del Fato, azzerando in questo modo il numero dei delitti e garantendo i delicati equilibri del mondo. Sperimentando le innovazioni tecnologiche legate al cinema, il regista kazako dei guardiani night and day, irrompe a Hollywood e costruisce un film sul controllo della verità e sulla sua trasformazione in regime, sulla perdita della privacy e della libertà a vantaggio di una sicurezza che implica l'annullamento dell'individuo (se pure criminale). Nonostante l'intensità del look e il ritmo vertiginoso delle riprese, nonostante i prodigiosi istanti congelati, che isolano e sospendono gli scontri fisici tra i personaggi, il "ricercato" fantafilm di Bekmambetov, non colpisce la fantasia dello spettatore e solleva un problema di sproporzione tra il fumetto e il suo adattamento. Perchè Wanted si vuole basato sulla graphic novel di Millar e Jones ma ne prende al contrario le distanze? Che cosa è diventata l'opera originale in quella che ne deriva? Svestiti i costumi da supereroi, la confraternita disciplinaria di Bekmambetov pratica il precrimine e legittima l'uso della violenza, colpendo obiettivi colpevoli e malvagi. Diversamente, nelle tavole di Jones, gli assassini coi superpoteri sono una lobby sanguinaria che, sterminati gli impavidi supereroi in calzamaglia, uccide arbitrariamente e "creativamente". Niente telai del destino per mettersi a posto la coscienza e tollerare meglio l'omicidio sistematico. Wanted non è l'adattamento del romanzo grafico di Millar e Jones, non è nemmeno la sua traduzione visiva (come fu per il Sin City di Rodriguez/Miller), è indiscutibilmente un nuovo oggetto estetico che non reca in sé nulla (o quasi) del referente. Un prodotto che non richiede la conoscenza dell'opera di partenza come condizione necessaria per la comprensione di quella di arrivo. Un film prossimo a Minority Report (nella radicale visione politica dei contenuti) e a Matrix (nella fluida messa in scena dell'azione fantastica), che porta a galla il "rapporto di minoranza" (la voce dissonante del sistema) e sottrae la verità all'univocità della maggioranza. Sarà il dubbio di Wes e Fox, contro l'accettazione cieca del gruppo, a contemplare finalmente l'esistenza di un contrasto e a far collassare ideologia e metodo dei giustizieri "tessili". Scegliendo Angelina Jolie e James McAvoy, Bekmambetov sorvola (anche) sulle "facce rubate" (dal fumetto) di Halle Berry (Fox) e di Eminem (Wes Gibson), che avrebbero potuto acquistare significati inediti, ricollocate nello spazio e nell'immaginario cinematografico.

Boogeyman 2 Il ritorno dell'uomo nero


Laura Porter quando era una bambina e nel giorno del suo compleanno ha visto uccidere, insieme al fratello Henry, entrambi i genitori. Per i due bambini l'assassino era l'Uomo Nero. Ora i due sono diventati due ragazzi e Laura conserva ancora quel ricordo e quella paura dentro di sé. Accetta allora di entrare in una casa di cura psichiatrica per trovare un rimedio. Qui viene tenuta sotto controllo dall’ambiguo Dr. Allen e dalla Dottoressa Ryan. Ha modo così di incontrare i pochi altri pazienti tutti giovani come lei e tutti affetti da gravi problemi che vanno dall’autolesionismo alla mania dell’igiene. L'Uomo Nero non tarderà a presentarsi cominciando a mietere vittime. Il terrore di Laura crescerà progressivamente ma la ragazza non si arrenderà ad esso.A due anni di distanza l'Uomo Nero, che ha assillato l'infanzia di tanti bambini di qua e di là dall'Oceano, è tornato in scena cambiando però regista. Questa volta è il turno di Jeff Betancourt che, dopo aver appreso le tecniche della paura montando numerosi film a partire da The Grudge e passando per L'esorcismo di Emily Rose, ora ha a disposizione un buon cast che strizza l'occhio a chi ha frequentato Saw grazie alla presenza di Tobin Bell. Betancourt ha il pregio di non attardarsi in lunghe premesse. Lo choc infantile apre il film e di lì a poco la protagonista viene rinchiusa nella dimensione claustrofobica della misteriosa clinica i cui spazi vengono indagati dalla macchina da presa in ogni minimo recesso. Non ci si limita ai classici locali sotterranei (anche se non mancano) e dalle docce ai corridoi, dalle camere agli uffici ogni luogo diviene un possibile antro in cui fronteggiare l'orrore. Il quale, come ormai sembra essere indispensabile, da psicologico si traduce rapidamente in fisico esibendo un campionario di efferatezze di discreto impatto. Non vanno svelate ovviamente ma ci ricordano (e una sequenza lo esplicita in modo particolare) come in fondo questo tipo di rappresentazione sia di fatto moralistica. La 'carne' ne esce sempre martoriata e anche la vitalità della sessualità finisce con il trovarsi riferita all’inevitabile decomposizione del corpo. Una sola avvertenza: chi prova repulsione per insetti e vermi è invitato ad astenersi dalla visione.

Mammoth



Quando una meteora colpisce il tetto del museo del Pleistocene, nella tranquilla cittadina di Blackwater, Louisiana, la furia del mammoth che si trova al suo interno prende vita e con la sua furia comincia a seminare il terrore nella cittadina.


Guarda il Film:http://www.megavideo.com/?v=G3GGWFMJ

Aisha (Kaled)

Riflessi di Paura


In seguito all'uccisione involontaria di un agente in borghese, il detective Ben Carson perde il lavoro e, caduto nell'alcolismo, viene lasciato dalla moglie. A distanza di un anno l'ex poliziotto trova un impiego come guardiano notturno presso un grande magazzino abbandonato che cinque anni prima è stato danneggiato da un incendio di natura dolosa. Nel tetro luogo, dove hanno perso la vita ventinove persone e altre settantotto sono rimaste gravemente ferite, risiedono oscure presenze, intrappolate negli immensi specchi che ne ricoprono le pareti.Il cinema di Alexandre Aja risiede nell'horror e Riflessi di paura conferma il voto che il regista francese ha fatto al genere, sebbene qui sia manifesto nella sua vena meno truculenta e spaventevole. Riprendendo la trama dal sudcoreano Geoul sokeuro - Into The Mirror, inedito in Italia, Aja sposta l'asse d'azione in una New York patinata di giorno (bella l'idea di far riflettere la città su se stessa nei titoli di testa) e terribilmente cupa di notte. Portando avanti la narrazione su due piani - da una parte il mistero che si cela nelle pareti riflettenti del fatiscente edificio e il motivo per il quale è stato incendiato, dall'altra il dramma personale del protagonista e l'apprensione per la sua famiglia - il regista scombina le carte e porta lo spettatore in uno stato confusionale. Trattasi di visioni dovute a disturbi della personalità? Di spiriti che gridano vendetta? Di un complotto ai danni della famiglia che un tempo possedeva l'esclusivo ed elegante grande magazzino? Di un tentativo di nascondere le tracce di quanto avveniva nella clinica psichiatrica St. Matthew che originariamente aveva sede nell'edificio? Gli spunti offerti dall'opera di Aja sono tanti e finiscono ahinoi per risultare più interessanti della soluzione trovata dagli sceneggiatori. Se a ciò si aggiunge la presenza in prima linea di Kiefer Sutherland, che oltre a dominare sullo schermo si è prestato anche al ruolo di produttore esecutivo, l'imbarazzo diventa maggiore. Non riuscendo a slegarsi dal ruolo ormai celebre di Jack Bauer, l'attore rischia di "riflettere" in eterno l'immagine di agente vendicativo, invincibile e senza scrupoli di 24. Tuttavia l'inaspettato finale del film, che se fosse stato sviluppato avrebbe potuto costituire da solo un egregio e originale horror, offre a Sutherland e allo stesso Riflessi di paura un'ancora di salvezza.

Shaggy sexy lady

Consigli

Quando guardate un film su megavideo per la prima volta avrete a disposizione solo 61 min. uscite da Internet spegnere il route per circa 2 min. riaccendere collegarsi di nuovo e avrai 121 min. così di seguito...
Buona Visione

Rec

Mentre voi dormite: questo il nome del programma televisivo condotto da Angela. Una notte nella vita di una caserma dei vigili del fuoco di Barcellona, seguita in diretta dalla ragazza e dal suo cameraman Pablo. E proprio la macchina da presa del ragazzo diventa l'occhio dei due registi del film, Jaume Balagueró e Paco Plaza, finendo così per far coincidere il girato di «Mentre voi dormite» con il film stesso.Una trovata non troppo originale (vedi The Blair Witch Project!) ma che calza alla perfezione a un film angosciante e vouyeristico come Rec: l'uscita dalla caserma per rispondere a quella che sembrava una chiamata di routine si trasforma infatti per la troupe televisiva e per i pompieri in un vero inferno senza vie di fuga. Un inferno che anche lo spettatore finisce per vivere sulla propria pelle, intrappolato nella palazzina insieme ai personaggi, sotto l'occhio perennemente vigile della macchina da presa di Pablo, che è poi l'occhio dell'autore – o meglio, degli autori. L'occhio cinematografico, così spietato e inopportuno di fronte alla tragedia umana, diventa così anche l'unico testimone del teatro degli orrori che mettono in atto i vari personaggi – tutti ben caratterizzati e non privi di una certa dose di ironia, dalla mamma isterica e apprensiva, all'immancabile (per il genere horror) bambina dolcemente terrificante, fino al cameraman Pablo, credibile anche se inquadrato solo dalle caviglie in giù!Il giovane spagnolo Balagueró, affermatosi con Nameless ma poi soprattutto con Darkness, torna a girare un horror genuino, fresco e per fortuna tutto spagnolo (anche nel cast, dopo il pessimo esperimento americano di Fragile!), ai livelli dell'altrettanto personale progetto "minore" di Para entrar a vivir, presentato a Venezia 2006, che fa parte della serie Peliculas para non dormir. Unendo le sue forze con il giovane connazionale Paco Plaza (Second Name) e giocando la carta della semplicità, è riuscito con successo in questo non facile esperimento di rinnovamento di un genere ormai inflazionato, creando un concentrato di terrore che non deluderà gli appassionati e farà saltare sulla sedia anche i più scettici.

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